02 Ott Stefano Paganini: la cucina è cultura e amore della terra
“Uno che si chiama Paganini dev’essere un artista.”
“Nel Roero si mangia bene.”
I luoghi comuni non hanno mica tutti i torti.
Ma c’è un luogo che non è comune, ed è anzi unico al mondo: il castello di Magliano Alfieri, sulle colline tra Langhe e Roero.
Questo castello in puro stile barocco piemontese una volta era della famiglia Alfieri.
Vittorio Alfieri ci andava in vacanza d’estate quand’era piccolo, e non ancora il più grande drammaturgo della letteratura italiana. Poi la guerra, la caduta dei Savoia, la repubblica, e così nel 1952 l’ultima discendente del casato, la marchesa Margherita Visconti Venosta Pallavicino-Mossi, rimasta sola e senza eredi ad aggirasi per le sale del castello tra gli antichi spendori di un’epoca ormai finita, lo lasciò in eredità alla chiesa del paese.
La chiesa lo donò al comune di Magliano che negli anni ’60 lo trasformò in un condominio popolare. Oggi questa doppia storia nobile e popolare del castello convive nelle sale che ospitano il Museo di Arti e Tradizioni Popolari e il Museo Teatro del Paesaggio di Langa e Roero.
Aggirandosi per le sale del Castello di Magliano Alfieri la vista sarà attratta dagli affreschi barocchi, ma l’olfatto e il gusto ci porteranno a dirigerci verso il ristorante Alla Corte degli Alfieri, che proprio in queste antiche sale riportate al loro settecentesco splendore ospita le delizie create da Stefano Paganini.
Qui crea una cucina che mescola territorio e innovazione, tradizione e creatività, sapori classici piemontesi e sorprendenti invenzioni di gusto. E in queste cucine dove una volta i cuochi dei conti Alfieri cucinavano per i banchetti nobiliari, ha pensato, sperimentato e messo a punto le ricette per il Buon Riso.
Lo incontriamo in un pomeriggio di inizio autunno. Sta iniziando a preparare le delizie che servirà agli ospiti della sera. Ma intanto parliamo, e lui ci racconta della sua identità che viene dall’essere langhetto di nascita e roerino di crescita.
Ciao Stefano, cosa ci fa un uomo di Langa come te sulle colline del Roero?
Non sono così forestiero: da qui a Neive dove sono nato sono 10 chilometri, neanche un quarto d’ora. C’è solo il Tanaro a separarci. E poi, “Siamo nati per girovagare su quelle colline” scriveva Cesare Pavese: la campagna è uguale in tutto il mondo, figuriamoci da una collina all’altra del Piemonte.
Ho avuto la fortuna di vivere la consacrazione del Roero come terra del gusto, portandolo ad essere percepito come un territorio di valore che ora affianca le Langhe e il Monferrato con pari dignità enogastronomica. Intorno a metà degli anni ’90 è iniziato questo movimento di consapevolezza. L’idea alla base era semplice: prendiamo esempio dai nostri vicini delle Langhe, che hanno valorizzato il loro territorio e l’hanno portato nell’olimpo mondiale del gusto. Qui abbiamo pensato “il Roero non è da meno”, e grazie a una generazione di winemaker e di ristoratori di talento, abbiamo dato vita al fenomeno Roero.
Come inzia la tua vita da chef?
Con tanta gavetta.
Prima ho frequentato la scuola alberghiera di Barolo. Poi ho avuto la fortuna di lavorare in alcuni dei migliori ristoranti del territorio, come All’Enoteca di Canale, dove ho conosciuto il mio maestro Davide Palluda: con lui ho passato 14 anni che mi hanno fatto crescere come uomo e come chef, in una preziosissima scuola di vita e di mestiere.
Poi hai iniziato a camminare con le tue gambe…
E molto presto: a 22 anni avevo già la mia cucina da gestire, quella di Villa Tiboldi a Canale. A ripensarci adesso è stata una scommessa, della famiglia Damonte, proprietaria della cantina Malvirà, di affidarmi la cucina di una tenuta così prestigiosa, e anch’io nell’accettare ho fatto una scommmessa altrettanto impegnativa. Ma quest’esperienza è stata decisiva, per darmi la forza di aprire finalmente un ristorante tutto mio.
Come sei arrivato ad aprire un ristorante nel castello di Magliano Alfieri?
Questa è stata un’impresa complessa, che mi ha fatto sudare ancor prima di accendere i fornelli. Il Comune di Magliano Alfieri aveva indetto un bando per affidare le sale del castello. Io ho presentato il mio progetto, sia culinario di valorizzazione dei prodotti locali che architettonico di allestimento delle sale storiche. E così ho vinto il bando e mi sono ritrovato in queste magnifiche sale pensando “adesso devo dare il meglio di me stesso”.
Come definisci la tua cucina, il tuo stile?
Io sono un territorialista convinto.
Per me territorialismo vuol dire il culto delle materie prime, della loro stagionalità, delle ricette tipiche, che non voglio mai stravolgere solo per sorprendere, ma riportare alla luce e rivitalizzare.
Sono nato in campagna, e vivo in campagna: ho i piedi ancorati alla terra. Non mi piacciono i piatti appariscenti, che buttano fumo negli occhi. Mi piacciono le cose concrete: se faccio un piatto con due ingredienti caratterizzanti, voglio che questi due ingredienti siano ben percepibili e riconoscibili, e non sepolti da giochi di prestigio, da decine di salse, riduzioni, guarnizioni, glasse varie.
Per cucinare bene ci vuole cultura.
Cultura gastronomica, ovviamente, ossia la competenza gastronomica di base e la conoscenza della storia della cucina, la cui mancanza a volte viene mascherata da trucchi da palcoscenico ed effetti speciali altisonanti.
E poi ci vuole la cultura del territorio. Anch’io potrei preparare un piatto giapponese, ma non sarei credibile. Cultura del territorio per me vuol dire avere le radici anche personali, le radici dell’anima. Vuol dire essere andato per anni al mercato di Canale all’asta dei prodotti agricoli, dove vedi la qualità, la assaggi, la assimili, la fai tua.
Significa girare cascina per cascina a parlare con i contadini, con chi materialmente produce e raccoglie, e ti sa dire non solo la stagione migliore, ma il mese, persino la settimana in cui quella frutta o quella verdura ha un sapore irripetiible.
Vuol dire conoscere le facce, le persone, la storia. Io credo nella gente del territorio, andare di casa in casa per sentire le ricette di famiglia, il modo di “mettere via” le verdure. Spesso la sera mi fermo a parlare con i vecchi del paese, e ogni storia che mi raccontano mi svela nuovi aspetti di questo territorio, di questa cultura, di questa gente.
Raccontaci del ricettario fatto con Il Buon Riso.
La prima sensazione è stata di gratificazione: è lusinghiero essere chiamati da un’azienda così importante. Poi è subito subentrato il feeling con Riccardo Traversa, l’amministratore delegato, che mi ha dato fiducia e libertà creativa totale di sperimentare e di inventare. È stato stimolante potermi confrontare con un imprenditore deciso e appassionato, che ama il suo lavoro e il suo prodotto.
Così ho creato delle ricette prendendo spunto dal territorio, dagli ingredienti che conosco meglio.
Ad esempio, il risotto con peperoni e acciughe. Peperoni e acciughe è un abbinamento che in Piemonte si usa per gli antipasti, io ho voluto farlo diventare il sapore caratterizzante di un risotto.
Oppure l’agnello alla menta. La menta piemontese è riconosciuta dagli intenditori come la migliore al mondo, l’agnello alla menta è un piatto della tradizione inglese: quindi l’origine esotica e storica della ricetta, esaltata dall’alta qualità dell’ingrediente territoriale.
Poi ho voluto reinterpretare il classico Risotto alla Bergese, creato da Bino Bergese, il “re dei cuochi, il cuoco dei re”, anche lui piemontese, un uomo leggendario che ha fatto la storia della cucina e del gusto.
C’è un piatto in particolare che consigli per iniziare il tuo ricettario?
Direi di partire dal risotto di porcini e mele verdi: due ingredienti dell’autunno, per un risotto tipicamente stagionale, che non puoi fare a luglio con i funghi secchi e le mele ormai raccolte da quasi un anno.
Grazie Stefano, è un piacere parlare con te e imparare l’amore che hai per le cose buone.
Grazie a te, al Buon Riso, e a tutte le persone che proveranno a cucinare le mie ricette.